Roberto Farneti
A Taranto ci si ammala sempre di più di tumore e il mancato rispetto dell’ambiente da parte dell’Ilva continua ad essere tra le principali cause dell’inquinamento cittadino. Dopo il recente ultimatum di Regione Puglia e ministero dell’Ambiente, che minacciano di chiudere la fabbrica siderurgica se non si ridurrà la quantità di diossina emessa dai camini, un’altra inquietante vicenda viene alla luce grazie alla magistratura. Mercoledì scorso i carabinieri del Noe di Lecce sono entrati nello stabilimento dell’Ilva di Taranto dove hanno sequestrato circa 16mila tonnellate di pet-coke (carbone da petrolio), importato dagli Stati Uniti e destinato alla miscelazione con carbone fossile per la produzione di coke siderurgico. Il legale rappresentante dello stabilimento è stato anche denunciato per aver depositato il pet-coke su area priva di autorizzazione allo smaltimento nel sottosuolo di acque di dilavamento, per assenza di autorizzazione alle emissioni in atmosfera e per gestione illecita del rifiuto, in quanto destinato ad un impiego diverso da quello previsto. Il valore del pet-coke sequestrato è di circa due milioni di euro.

Ieri l’Ilva ha espreso fiducia sull’esito degli accertamenti della magistratura, precisando che «il materiale preventivamente posto sotto sequestro rappresenta una parte insignificante rispetto alla quantità di materie prime che l’azienda utilizza quotidianamente». E tuttavia non è la prima volta che l’Ilva di Taranto finisce nei guai per il mancato rispetto delle leggi a protezione dell’ambiente. In passato la Fiom ha effettuato diverse denunce e alcune di esse hanno portato a sequestri. «Un paio di anni fa – riferisce Francesco Rizzo, Rls della Fiom – abbiamo chiamato noi il Noe, perché trovammo pozze allagate di olio, degli scarichi veri e propri non a norma. In pratica, per smaltire i residui oleosi venivano utilizzate vasche originariamente adibite allo stoccaggio di materiale per i treni nastro, inadatte allo scopo. Scoprimmo anche che non era l’unica situazione del genere nello stabilimento».

L’estate scorsa un altro reparto, il tubificio, è stato posto sotto sequestro dalla capitaneria di Porto perché c’era il sospetto che da lì venissero scaricati olii inquinanti in mare. Per tutta risposta l’Ilva mise subito in libertà 200 lavoratori. Dopo una decina di giorni il tubificio fu dissequestrato. «Poco tempo dopo ci furono nuove segnalazioni di scarichi a mare, però non è più intervenuto nessuno», afferma Rizzo. Spesso inoltre l’azienda se l’è cavata con poche migliaia di euro di multa.

A Taranto mantenersi in salute è impresa difficile. Infatti o si muore in fabbrica o si corre il rischio di ammalarsi dentro e fuori dalla fabbrica. Nel 2007 all’Ilva si sono verificati quasi 2mila infortuni, in calo rispetto all’anno precedente «ma solo perché – chiarisce Rizzo – il lavoratore che s’infortuna a volte evita di denunciare, in quanto sa che potrebbe a sua volta subire provvedimenti disciplinari». Il sindacalista della Fiom sottolinea il controsenso: «Quando il lavoratore sbaglia, l’Ilva è inflessibile. Quando invece è l’Ilva che sbaglia, spesso finisce a tarallucci e vino». Il fatto è che qui l’arma del ricatto occupazionale è fortissima, in una città dove la politica in tanti anni non è riuscita a costruire alternative alla fabbrica che inquina.